Come si fa a diventare la bibita più famosa della Cina e giocarsela alla pari con un colosso del calibro di Coca Cola? Non servono né milioni di euro in pubblicità televisiva né massicce campagne di merchandising. Basta suggerirne una lattina a chi ama la cucina speziata dei ristorantini del Sichuan.
Così è successo per il Wanglaoji, che nasce in Cina quasi 200 anni fa come tè alle erbe medicinali e che il gruppo dei soft drink di Hong Kong, Jdb, ha trasformato in una potenza del settore. E c’è riuscito, appunto, stabilendo migliaia di partnership con piccoli ristoranti sichuanesi che consigliavano caldamente questo tè agli avventori. Il passaparola ha fatto il resto: oggi il Wanglaoji vende lattine per tre miliardi di dollari all’anno.
Il passaparola, appunto. Il metodo di marketing più efficace in Cina. Costa poco, di certo meno di una campagna pubblicitaria, quindi è alla portata anche delle aziende più piccole. Proprio come alcune italiane che stanno tentando l’avventura oltre la Grande muraglia. È un consiglio prezioso e arriva dagli esperti di McKinsey. Concentrati su come sfruttare al massimo il potenziale del consumatore emergente, si sono accorti che il suo comportamento d’acquisto differisce parecchio da quello dei colleghi occidentali. Si scopre così che il 60% degli americani cerca su Internet le opinioni su cibi e prodotti elettronici, mentre il 71% dei cinesi si fida solo dei giudizi di amici e parenti. Due universi paralleli. Senza contare che un cinese, per decidersi sulla marca di un computer, uno smartphone o un altro apparecchio elettronico, ci mette due mesi di tempo e almeno quattro gite ai negozi specializzati.
Conoscere queste peculiarità non è di poco conto, perché i consumatori emergenti sono un terreno ancora vergine, dove la fiducia verso determinati marchi non si è sviluppata e perciò c’è ancora grande margine di movimento. Basta pensare che il 60% dei cinesi che sta per acquistare un’auto è alle prese con il suo primo veicolo, e che il 40% di chi compra un pc lo fa per la prima volta. Ovvio che il primo augurio del consumatore cinese sia la durevolezza dell’oggetto in questione. Acer lo sa bene: per la sua prima campagna pubblicitaria a Pechino e dintorni puntò sul prezzo basso e fece un buco nell’acqua. Quando invece disse che i suoi pc erano affidabili e sarebbero durati a lungo, raddoppiò la sua fetta di mercato in soli due anni.
Altra strategia che premia parecchio nei mercati emergenti è quella di puntare su un’area geografica ristretta, anziché sull’intero territorio nazionale o sulle principali città. Comprendere perché non è difficile: il passaparola, su un’area circoscritta, funziona meglio. Il caso della Procter & Gamble in India è esemplare: l’azienda ha cominciato a distribuire gratuitamente in poche scuole gli assorbenti Whisper, con effetti a cascata sorprendenti proprio grazie al passaparola. Si stima che nell’area interessata dalla promozione il tradizionale uso di pezze di stoffa sia passato dal 66% a meno del 6 per cento.
L’altra grande scelta da azzeccare per esportare con successo un prodotto di largo consumo nei mercati emergenti è la modalità di distribuzione. Meglio la rete dei negozietti o i grandi supermercati dei centri commerciali? La risposta, sostengono gli analisti di McKinsey, dipende molto dal Paese. L’India, per antonomasia, è il regno delle botteghe, dove transita il 98% dei beni alimentari. La dimensione familiare è tipica anche dell’Indonesia e delle Filippine, ma va per la maggiore anche in Argentina (68% dello smercio di alimenti). In Turchia, Russia, Brasile e Sudafrica supermercati e negozietti si spartiscono il mercato a metà, mentre in Cina non c’è storia: oltre il 60% passa dai centri commerciali, e la percentuale sale al 75-80% nel caso delle grandi metropoli come Pechino, Shanghai o Shenzhen.
«Come consiglierei di muoversi a un’azienda italiana che vuole vendere in Cina un prodotto alimentare o un capo d’abbigliamento? – spiega Max Magni, partner McKinsey e leader della Consumer goods practice in Asia –. Intanto le direi di scegliere un cluster preciso e non tutto il Paese, quindi partire dalla città-hub per poi lentamente allargarsi sul resto della provincia. Sceglierei un supermercato regionale, che a differenza delle grandi catene nazionali richiede fee più basse. Infine, spenderei solo una piccola parte del budget pubblicitario su un canale televisivo provinciale, magari satellitare: il grosso della somma lo investirei in attività promozionali sul punto vendita. Il 60% dei cinesi sceglie il marchio solo una volta che è arrivato davanti agli scaffali».
Certo, il canale di vendita non può prescindere dal tipo di prodotto. In Thailandia la Prantalay ha scelto la grande distribuzione per i suoi “pronti in tavola” a base di pesce perché vanno conservati in frigorifero, ma ha puntato sui negozietti per le sue confezioni di spaghetti (noodles) istantanei, che si possono comodamente tenere sugli scaffali. L’importante in questo caso, per avere successo, è convincere il bottegaio a esporre il nostro prodotto in una posizione privilegiata rispetto ai concorrenti. Come riuscirci? In Messico e India pare funzioni molto bene la promessa di ridipingere a proprie spese il negozio ogni sei mesi. Ma vanno forte anche le offerte di saldare la bolletta elettrica, regalare frigoriferi o fornire un’assicurazione sanitaria privata come benefit ai parenti del titolare.
Fonte Il sole 24 ore