Tre fisici americani hanno trovato una nuova proprietà della materia che rompe tutte le regole. E che potrebbe essere alla base del teletrasporto. Ovvio, non c’è una macchina del tempo per verificarlo, ma di fatto gli scienziati hanno osservato che un composto dell’uranio (Uru2Si2) in certe condizioni rompe il concetto fisico della simmetria per inversione temporale, come avviene nel magnetismo, ma anche la simmetria per doppia inversione temporale, che invece nel magnetismo è conservata.
È come dire che in natura ci sono due categorie di particelle: quelle che quando tornano indietro nel tempo tornano a essere se stesse e quelle che per tornare se stesse devono tornare indietro nel tempo due volte. La nuova teoria, che gli autori definiscono “stato astatico”, presenta una simmetria per inversione temporale addirittura quadrupla. E quindi? «Siamo nel bel mezzo della “rivoluzione quantistica” e prevediamo grandi cose in futuro, tra cui i viaggi nel tempo», hanno risposto i fisici.
CATTURARE LA LUCE SOLARE E DISPERDERLA IN MODO UNIFORME TRA LE COLTURE:
Lunghezza d’onda: Progettare un grande edificio sicuro per le piante richiede un’intima conoscenza di ciò che una pianta ha bisogno e come funziona nel suo insieme, per consentire la massima crescita. Le piante sono fondamentalmente diverse dagli animali in quanto per crescere richiedono acqua, pochi elementi tra cui l’anidride carbonica, una fonte di azoto organico, e la luce solare che le piante utilizzano tramite i processi di fotosintesi. Grazie ad essi, le piante scartano la porzione d’ossigeno dell’anidride carbonica nell’atmosfera, fornendo a tutti gli animali uno degli elementi essenziali che necessitano per svolgere la propria vita.
Quando mangiamo piante, ricaviamo lo zucchero (e, naturalmente, altre sostanze nutritive) da loro tessuti. Uniamo poi l’ossigeno che respiriamo con il carbonio della molecola zucchero, mettendo un atomo di carbonio e due di ossigeno alla volta. Questo produce anidride carbonica e sostanze chimiche energetiche sotto forma di adenosina trifosfato.
Utilizziamo quindi l’energia chimica per costruire i nostri tessuti, e mandiamo fuori l’anidride carbonica come prodotto di scarto. Le piante assorbono l’anidride carbonica e il ciclo inizia da capo. Esiste quindi una stretta correlazione tra noi e le piante.
Va notato che nella vertical farm, oltre a produrre i nostri cibi, toglieremo enormi quantità di anidride carbonica dall’atmosfera e, soprattutto, produrremo un sacco di ossigeno. Così ogni volta che un lavoratore all’interno della vertical farm respirerà, sarà quasi in grado di ascoltare le piante dire “grazie”.
Ci sono due forme principali di clorofilla: clorofilla A e clorofilla B. Entrambi assorbono la luce in due distinte lunghezze d’onda dello spettro visibile, blu e rosso (circa 400 e 700 nanometri). Di conseguenza non tutta l’energia della luce del sole è necessaria per far crescere tutto il raccolto al suo massimo rendimento. Possiamo approfittare di questo, infatti, per la creazione di illuminazione esclusiva per le piante.
Emettitori di luce diodi (LED) sono già stati specificamente progettati per farlo, con un conseguente importante risparmio di energia e di costi. Al contrario, le lampadine tradizionali emettono il 95% della loro energia sotto forma di calore (molto inefficienti, quindi) e il resto come uno spettro più ampio di luce, la maggior parte dei quali è inutile per la pianta.
Le lampade OLED, invece, contengono composti organici stabili che consentono anche di produrre spettri più stretti di luce, risparmiando energia e denaro, mentre si continua a fornire alle piante esattamente ciò di cui hanno bisogno.
Inoltre, gli OLED permettono la progettazione di lampade che potrebbe essere fatte in qualsiasi configurazione, ponendo la sorgente di luce alla distanza ottimale dalla pianta, a prescindere dalla forma della pianta. Possono anche essere avvolte attorno ad ogni pianta che cresce, offrendo il massimo in consumi e illuminazione a risparmio energetico per le nostre colture alimentari.
La luce del sole: Nelle aree del mondo che godono già di abbondante luce del sole, come L’Italia, il sole è visto come l’unica fonte di energia per le colture e sarebbe del tutto fattibile e altamente raccomandato.
Il fotovoltaico, il solare termico e la cogenerazione potrebbero facilmente fornire l’energia necessaria per eseguire qualsiasi apparecchiatura elettrica, mentre la luce del sole avrebbe fornito tutta l’energia necessaria per crescere i raccolti. Orientare le facciate più lunghe della vertical farm con direzione est-ovest permetterà di catturare la massima luce.
Inoltre, si potrebbero appositamente costruire specchi parabolici composti di materiale plastico che raccolgano la luce solare e la portino nelle parti più interne dell’edificio, mentre la parte esterna rimarrebbe esposta alla massima quantità di luce.
La fibra ottica potrebbe essere un ottimo materiale per il trasporto e la distribuzione della luce dalla raccolta degli specchi esterni all’interno dell’edificio. Insieme, questi due approcci dovrebbero permettere un disegno ragionevole, indipendentemente dalla sua ultima forma.
La trasparenza: Se la luce solare è la fonte principale di energia per crescere i raccolti, la vertical farm dovrebbe essere il più trasparente possibile. Il progettista ha molte opzioni sui materiali tra cui scegliere. Il policarbonato è a buon mercato per la produzione e durevole.
Il grafene un materiale capace di condurre l’elettricità meglio del rame, trasparente come il vetro e più resistente dell’acciaio. Immaginate poi di poterlo piegare come se fosse plastica, e realizzare così schermi touchscreen da arrotolare e portarvi in tasca. Pura fantascienza? Forse no, perché gli scienziati conoscono già da anni il grafene, un “materiale delle meraviglie” con proprietà ed applicazioni in parte ancora ignote.
Una applicazione in agricoltura? Pensate all’osmosi inversa. Un esperimento di osmosi inversa è stato condotto negli Stati Uniti dai ricercatori del Massachussets Institute of Technology. “La struttura molecolare peculiare del grafene consente di creare dei fori di qualsiasi dimensione sulla sua superficie. Questo ci ha permesso di far passare l’acqua da una parte e i sali dall’altra”, hanno spiegato i ricercatori sulla rivista dell’American Chemical Society. “La dimostrazione di questo processo di osmosi inversa non è nulla di nuovo, ma erano necessari equipaggiamenti ingombranti e un alto consumo energetico. Tramite il grafene, invece, il processo di desalinizzazione si può svolgere 1000 volte più velocemente e a un costo energetico pari a zero.
Così, mentre parte della comunità scientifica sta studiando le caratteristiche del grafene, molti ricercatori in tutto il mondo sono impegnati a sviluppare tecniche di produzione innovative, come quella recentemente sviluppata alla Toyohashi University of Technology.
Un gruppo coordinato da Yuji Tanizawa è infatti riuscito ad “addomesticare” dei microorganismi raccolti in un fiume vicino al campus universitario, nella prefettura di Aichi, ed utilizzarli così per produrre i sottilissimi fogli di grafene. Il nuovo metodo, presentato sulle Conference Series del Journal of Physics, sfrutta quindi un procedimento ibrido che combina processi chimici ed agenti biologici e che potrebbe offrire un nuovo canale per produrre grafene di alta qualità, a basso costo, e nel completo rispetto dell’ambiente.
Un materiale da premio Nobel. Costituito da uno strato di atomi di carbonio collocati su una struttura a nido d’ape, il grafene è considerato uno dei materiali più promettenti del futuro. Questo materiale bidimensionale è infatti ultrasottile, flessibile, ed è circa 200 volte più resistente dell’acciaio. E’ inoltre un ottimo conduttore di calore e di elettricità, e per le sue proprietà di trasporto degli elettroni è già considerato l’erede del silicio nell’elettronica del futuro.
Ma uno degli aspetti più sorprendenti del grafene è che ce l’abbiamo sotto gli occhi praticamente quasi tutti i giorni, ogni volta che scriviamo con una matita. La grafite, di cui è fatto il cuore delle nostre matite, è infatti una sovrapposizione di strati di grafene separati da tre decimilionesimi di millimetro.
Nonostante molti studi teorici avessero iniziato a delineare le proprietà fisiche e chimiche degli strati di grafite sin dalla prima metà del Novecento, il grafene rimase per decenni lontano dai laboratori. Si riteneva infatti che la configurazione atomica del grafene fosse altamente instabile e che fosse quindi impossibile crearlo a temperatura ambiente.
Tutto cambiò nel 2004, quando un gruppo di ricercatori dell’Università di Manchester, guidati da Andre Geim e Konstantin Novoselov, riuscì per la prima volta ad isolare il grafene in laboratorio. Geim e Novoselov avevano infatti usato un nastro adesivo per strappare singoli piano di grafene da un substrato di grafite. La scoperta, discussa su Science nell’ottobre 2004, era così rivoluzionaria da meritare un biglietto per Stoccolma in tempi record. Dopo solo sei anni, Geim e Novoselov ricevettero il premio Nobel 2010 per la Fisica, per “i pionieristici esperimenti sul materiale bidimensionale grafene”.
Batteri mangia-grafite. La scoperta di Geim e Novoselov aprì la strada ad un nuovo settore della fisica dei materiali, su cui iniziarono a lavorare scienziati in tutto il mondo. Molti gruppi di ricerca, come quello di Tanizawa, si concentrano oggi sullo sviluppo di tecniche di produzione alternative al metodo di esfoliazione adottato da Geim e Novoselov.
Il gruppo giapponese lavora infatti sui metodi di tipo chimico, che sfruttano cioè reazioni per produrre grafene a partire dall’ossido di grafite. Questo materiale ha una struttura laminare molto simile alla comune grafite, ma dove però ad alcuni atomi di carbonio sono legati altri atomi, come ad esempio ossigeno ed idrogeno. Per produrre il grafene, si operano dei processi chimici di riduzione, nei quali cioè vengono ceduti elettroni all’ossido di grafite, in modo da spezzare i legami con l’ossigeno e ricondursi poi ai singoli piani di grafene.
Tuttavia questi processi chimici utilizzano come reagente l’idrazina, oppure si basano sul riscaldamento ad altissime temperature, due tecniche che rendono il procedimento molto costoso e persino tossico. Per questo motivo i ricercatori giapponesi hanno deciso di “chiedere aiuto” ad alcuni microorganismi capaci di operare processi di riduzione chimica.
Molti batteri, come ad esempio quelli della specie Shewanella oneidensis, ricavano infatti energia dai processi di riduzione, trasportando cioè elettroni verso l’esterno in un curioso processo di respirazione cellulare. Facendo “respirare” ai microbi l’ossido di grafite per tre giorni ad una temperatura controllata di 28 °C, i ricercatori sono così riusciti ad ottenere frammenti di grafene grandi 100 micron e di ottima qualità, in un processo non tossico e poco costoso.
Dai transistor alle reti superveloci. Produrre grafene di qualità e a costi contenuti è una priorità, soprattutto in vista delle nuove potenzialità che si scoprono giorno dopo giorno. Sicuramente le applicazioni più promettenti sono legate all’elettronica, viste le peculiari proprietà del grafene nella conduzione di corrente. Nel 2010 ad esempio, un team della IBM è riuscito a creare transistor al grafene capaci di operare a frequenze superiori a 100 GHz.
Tuttavia per fare il salto verso processori a base di grafene occorre superare un ostacolo legato alle perdite di corrente di questi transistor, che impediscono di montare troppi transistor in un singolo circuito. Un ostacolo che potrebbe presto essere superato grazie ad una nuova scoperta realizzata da Andre Geim e pubblicata a febbraio su Science.
Geim e colleghi hanno infatti sfruttato la “terza dimensione” del grafene, accoppiando diversi strati di questo materiale con vari strati di metallo, creando così transistor di nuova generazione. Le proprietà quantistiche del grafene, legate ad esempio al basso momento magnetico dei nuclei di carbonio, rendono inoltre questo materiale un ottimo candidato per creare i dispositivi di base per la spintronica, ovvero l’elettronica basata sui bit quantistici, o qubit, che dovrebbe essere alla base dei computer quantistici.
Ma le meraviglie del grafene potrebbero portarci altri regali futuri, fra cui sistemi di trasmissione digitale ancora più veloci. E’ infatti possibile alterare i livelli energetici del grafene per renderlo più o meno trasparente e creare così dei modulatori ottici, ovvero degli interruttori capaci di controllare il percorso dei segnali luminosi. I primi modulatori ottici a base di grafene, grandi pochi micron, sono stati realizzati all’Università di Berkeley e presentati per la prima volta su Nature nel maggio dell’anno scorso. Questi ‘interruttori luminosi’ saranno utilissimi nell’ottica quantistica e nella comunicazione digitale ad altissima velocità.
Come la plastica cento anni fa. Le potenziali applicazioni vanno oltre l’elettronica o l’ottica. Per esempio, la densità del grafene lo rende impermeabile ai gas, una proprietà che potrebbe essere sfruttata per creare filtri più efficienti, ad esempio nella produzione di biocarburanti. Essendo poi un materiale praticamente bidimensionale, il grafene può essere usato per costruire sensori a grande area sensibile capaci di individuare singoli atomi, e costruire così rilevatori di sostanze tossiche estremamente sofisticati.
L’accoppiata fra le proprietà elettriche e meccaniche del grafene permetterà inoltre di costruire molti dispositivi estremamente efficienti e flessibili, fra cui schermi touchscreen, batterie ad alta capacità e pannelli solari di nuova generazione. Inoltre, i fogli di grafene possono essere arrotolati in nanotubi di carbonio, che già oggi sono alla base di moltissime applicazioni nel campo delle nanotecnologie.
Ma l’aspetto forse più intrigante è che gli scienziati sono ancora lontani dalla comprensione completa delle proprietà del grafene. Fino a pochi mesi fa non si sapeva molto delle proprietà magnetiche di questo materiale, fino a quanto il gruppo di Geim è riuscito a mettere in evidenza le prime tracce di fenomeni magnetici nel grafene, come descritto in un articolo apparso a gennaio su Nature Physics. E’ sicuro che anche questa scoperta porterà a nuove interessanti applicazioni.
Nel gennaio 2013 (insieme al progetto Human Brain Project) è stato selezionato dalla Commissione europea tra i FET Flagships, i progetti faro di ricerca e sviluppo promossi dall’Unione Europea: scelti da una rosa di sei candidati, i due progetti beneficeranno di un sostegno finanziario di 1 miliardo di euro lungo dieci anni.
Il grafene è quindi ancora ricco di misteri. Le sue potenzialità sono così grandi che oggi è praticamente impossibile immaginarle tutte. A cosa servirà il grafene? Una domanda a cui nemmeno il premio Nobel Andre Geim sa ancora rispondere, come ebbe modo di dichiarare ai tempi del Nobel. “Non lo so. E’ come presentare un pezzo di plastica a un uomo di un secolo fa e chiedergli cosa ci si può fare. Un po’ di tutto, penso”. Detto da un premio Nobel, non possiamo che fidarci.